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Corridoio Introduttivo (Prima della Sala 1): IntroduzioneBenvenuti alla mostra "Io sono Leonor Fini". Questo titolo, una citazione diretta dell'artista, non è una semplice etichetta, ma una vera e propria dichiarazione d'intenti. Un'affermazione di identità, potente e inequivocabile, che risuona attraverso l'intera esposizione. Lungo questo corridoio, le fotografie esposte vi offrono un primo assaggio della vita e della personalità di Leonor Fini: una donna che ha sfidato le convenzioni del suo tempo, costruendo un'immagine di sé eccentrica, libera e profondamente artistica. Notate il suo sguardo, sempre intenso, a volte provocatorio, a volte enigmatico. Osservate i suoi abiti, spesso stravaganti, i suoi amati gatti, presenze costanti nella sua vita e nella sua arte, e gli amici artisti che la circondavano. Leonor Fini, nata a Buenos Aires nel 1907 da madre italiana, trascorse la sua infanzia e adolescenza nella vivace Trieste di inizio Novecento. Un ambiente cosmopolita, ricco di stimoli culturali, che ha nutrito la sua immaginazione e la sua sensibilità artistica. La sua era una famiglia di donne forti e indipendenti, un modello che la segnerà profondamente. Fin da bambina, Fini dimostra un talento precoce per il disegno e la pittura, e un'attrazione per il mistero, l'inconscio, il mondo dei sogni. Trasferitasi a Milano e poi a Parigi, Fini entra in contatto con le avanguardie artistiche del tempo, in particolare con il Surrealismo. Pur condividendo con i surrealisti l'interesse per l'onirico, l'erotismo e l'inconscio, Fini mantiene sempre una sua indipendenza creativa, rifiutando di essere etichettata o incasellata in un movimento specifico. La sua opera, infatti, è un intreccio di suggestioni diverse, che spaziano dal Rinascimento italiano al Manierismo, dalla pittura metafisica al Simbolismo, fino ad arrivare a prefigurare temi di grande attualità come la fluidità di genere e la ridefinizione dei ruoli maschili e femminili. La mostra che state per visitare è un viaggio attraverso questo universo complesso e affascinante. Nove sezioni tematiche vi guideranno alla scoperta delle diverse sfaccettature della sua arte: la pittura, il disegno, la scenografia, il costume, la scrittura, la fotografia. Ogni opera è un tassello di un mosaico più grande, un frammento di un'anima inquieta e visionaria. Preparatevi a un percorso ricco di sorprese, a volte spiazzante, ma sempre profondamente coinvolgente. Ora, entrate pure nella prima sala, intitolata "Scene Primordiali".
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Sala 1: Scene PrimordialiQuesta prima sala è dedicata alle "Scene primordiali", ovvero a quegli eventi e immagini dell'infanzia e adolescenza di Leonor Fini che hanno lasciato un segno indelebile nel suo immaginario, diventando veri e propri pilastri concettuali della sua opera. Osservate attentamente "Sfinge arancione / Sfinge alata" (1973). La sfinge, con il suo corpo di leonessa e il volto di donna, è una figura ricorrente nell'iconografia di Fini, quasi un suo alter ego. L'artista era affascinata da questa creatura mitologica fin da bambina, quando a Trieste ammirava le statue e le decorazioni architettoniche che popolavano la città. La sfinge del Castello di Miramare, in particolare, un'imponente scultura in porfido rosa proveniente dall'Egitto, divenne per lei un simbolo di forza, mistero e indipendenza. Notate come, in quest'opera, la sfinge sia dipinta con un arancione acceso, un colore che trasmette energia e vitalità. Le ali spiegate suggeriscono un senso di libertà e di potenza, come se la creatura fosse pronta a spiccare il volo verso un mondo altro, un mondo di sogno e di magia. La sfinge, per Fini, non è un mostro da temere, ma una figura enigmatica e affascinante, che incarna l'ambiguità e la complessità dell'essere umano. Spostate lo sguardo su "Viaggiatori a riposo" (1978). I personaggi raffigurati ci introducono al tema della cecità, un'esperienza che ha segnato profondamente Leonor Fini durante l'adolescenza. La scena, ambientata in un paesaggio onirico, quasi una rovina classica, presenta delle figure, dei viaggiatori, limitate nella loro capacità di vedere. Questa limitazione visiva rimanda all'episodio in cui, a sedici anni, Fini fu costretta all'immobilità e all'oscurità a causa di una grave infezione agli occhi. Durante quel periodo, sviluppò una spiccata sensibilità tattile e uditiva, esplorando il mondo attraverso percezioni diverse. Quest'esperienza sensoriale amplificata, unita all'isolamento, si tradusse in una ricca immaginazione interiore, che influenzò profondamente la sua successiva produzione artistica.
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Sala 2: Gli esordi di un MondoLa seconda sala ci introduce agli inizi della carriera artistica di Leonor Fini e al suo complesso rapporto con il movimento surrealista. "Autoritratto con civetta" (1936) è un'opera chiave di questo periodo. Fini si ritrae con una civetta appollaiata sulla spalla, simbolo di saggezza, ma anche di mistero e preveggenza. Lo sguardo è fiero, penetrante, quasi a voler sfidare lo spettatore. L'artista si presenta come una figura consapevole del proprio potere creativo, in grado di attingere alle profondità dell'inconscio per dare vita a immagini visionarie e suggestive. Questo autoritratto è una vera e propria dichiarazione di intenti, un manifesto della sua poetica. La civetta, inoltre, non è un dettaglio casuale. Fini amava circondarsi di animali, in particolare di gatti, che considerava creature magiche, dotate di una sensibilità particolare. In molte fotografie dell'epoca, la vediamo ritratta con i suoi amati felini, quasi a voler sottolineare il suo legame con il mondo animale e con le forze istintive della natura. Spostate lo sguardo su "L'Arma bianca" (1936). In questo dipinto, due figure femminili si fronteggiano in un duello simbolico. Una, vestita con un abito scuro e una maschera, brandisce una spada, "l'arma bianca" del titolo. L'altra, nuda e vulnerabile, sembra soccombere. La scena è carica di tensione e ambiguità. Fini mette in scena una lotta per l'affermazione di sé, per la conquista di uno spazio di libertà e autonomia in un mondo dominato dagli uomini. L'opera riflette la sua visione della donna come figura forte, indipendente, capace di lottare per i propri diritti e per la propria libertà. È importante ricordare che Fini, pur frequentando i surrealisti e partecipando alle loro mostre, non si è mai identificata completamente con il movimento. Rifiutava la visione della donna come musa ispiratrice, oggetto passivo dello sguardo maschile. Nelle sue opere, la donna è sempre soggetto attivo, protagonista della propria storia.
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Sala 3: Il Confine del MondoLa terza sala ci conduce in un'atmosfera più cupa e inquietante, riflettendo le angosce e le incertezze di un'epoca segnata dalle guerre mondiali. "Il confine del mondo" (1948), che dà il titolo alla sezione, è un'opera emblematica di questo periodo. Una donna emerge da acque scure e limacciose, circondata da teschi e detriti. Il cielo infuocato sullo sfondo sembra presagire un'imminente apocalisse. L'atmosfera è desolata, ma la donna non appare spaventata. Il suo sguardo è calmo, determinato, quasi a voler sfidare la distruzione che la circonda. Quest'opera può essere interpretata come una metafora della condizione umana, sospesa tra la vita e la morte, tra la speranza e la disperazione. Ma è anche un'immagine di resilienza, di forza interiore, di capacità di resistere anche di fronte alle avversità più estreme. È interessante notare che Fini realizza "Il confine del mondo" dopo aver subito un'isterectomia, un'esperienza traumatica che la porta a confrontarsi con la propria mortalità e con il tema della fertilità negata. L'opera, quindi, può essere letta anche come una riflessione sul corpo femminile, sulla sua forza e sulla sua fragilità, sulla sua capacità di generare vita, ma anche di affrontare la morte. Osservate ora "La grande radice" (1943-1950). Una grande radice nodosa e contorta emerge da un terreno arido e desolato. Le sue forme sinuose, quasi umane, sembrano animarsi, prendere vita. L'opera evoca la forza della natura, la sua capacità di rigenerarsi e di sopravvivere anche nelle condizioni più avverse, ma anche il suo lato oscuro e inquietante. La radice può essere vista come un simbolo di vita, ma anche di morte, di radicamento, ma anche di sradicamento. Fini realizza quest'opera durante il suo soggiorno sull'isola del Giglio, un luogo isolato e selvaggio dove si era rifugiata durante la Seconda guerra mondiale. L'isola, con la sua natura incontaminata, diventa per lei una fonte di ispirazione, un luogo dove ritrovare se stessa e la propria creatività.
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Sala 4: LiasonsLa quarta sala ci introduce al tema delle relazioni intime, dei legami affettivi, dell'amore e del desiderio, così come vengono rappresentati nell'opera di Leonor Fini. "L'Alcova (Autoritratto con Nico Papatakis)" (1941) è un'opera fondamentale di questa sezione. In una stanza immersa nella penombra, un uomo nudo dorme profondamente in un letto a baldacchino. Accanto a lui, una figura femminile, vestita con un abito scuro, lo osserva con uno sguardo intenso e penetrante. La scena è carica di erotismo e mistero. I colori scuri e profondi contribuiscono a creare un'atmosfera intima e suggestiva. L'alcova, lo spazio più intimo della casa, diventa il luogo simbolico in cui Fini esplora le dinamiche di potere tra uomo e donna. In quest'opera, come in molte altre, Fini rovescia gli stereotipi e le convenzioni sociali. È la donna a essere in una posizione di potere, mentre l'uomo, nudo e addormentato, appare vulnerabile e indifeso. Spostate lo sguardo su "Autoritratto con Kot e Sergio" (1952). In questo dipinto, Fini si ritrae in compagnia di due dei suoi compagni, Constantin Jelenski e Sergio Gajardo. L'opera testimonia la sua vita sentimentale anticonvenzionale, la sua visione fluida e aperta della sessualità. Fini, al centro della composizione, è l'unica figura vestita. Il suo sguardo, intenso e penetrante, è rivolto direttamente verso lo spettatore. L'opera ci parla di relazioni complesse, di legami affettivi che sfuggono alle definizioni tradizionali, di un'idea di amore e di desiderio libera da schemi e pregiudizi. Fini era solita organizzare nella sua casa di Parigi delle cene e delle feste in cui invitava artisti, intellettuali e amici. Questi incontri erano spesso caratterizzati da un'atmosfera giocosa e provocatoria, in cui i ruoli e le identità si confondevano e si mescolavano. "Autoportrait avec Kot et Sergio" può essere letto anche come una rappresentazione di questo clima culturale, in cui le convenzioni sociali venivano messe in discussione.
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Sala 5: Narciso ImpareggiabileQuesta sezione approfondisce un aspetto fondamentale dell’opera di Leonor Fini: la sua personale e sovversiva rilettura del corpo maschile e il tema dell’androginia. Osservate attentamente "Ritratto di Nico Papatakis" (1942). Papatakis, attore e compagno di Fini, è rappresentato disteso a terra, completamente nudo. La sua posa rilassata e l'espressione intensa e enigmatica catturano l'attenzione dello spettatore. Fini si concentra sull'interiorità del soggetto, evidenziandone la fragilità e la sensualità, mettendo in discussione gli stereotipi di genere e anticipando il concetto di fluidità. L'ambientazione naturale, con il terreno cosparso di foglie, e la luce soffusa creano un'atmosfera onirica, invitando lo spettatore a interrogarsi sulla complessità dell'identità maschile. Passiamo ora a "Narciso impareggiabile" (1971). Quest’opera rappresenta un punto di arrivo nella riflessione di Fini sul tema dell'androginia. Un giovane uomo nudo, di una bellezza efebica, è sdraiato su un fianco, in una posa che ricorda quella di un antico dio fluviale. Il suo corpo è sinuoso, delicato, i suoi tratti sono androgini e il suo sguardo è perso in un sogno lontano. Lo sfondo indefinito, quasi astratto, contribuisce a creare un'atmosfera sospesa, atemporale. Quest'opera è una vera e propria celebrazione della bellezza androgina, una bellezza che sfugge alle definizioni, che non si lascia imbrigliare dalle convenzioni sociali, né tantomeno da una rigida divisione tra maschile e femminile.
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Sala 6: Gli Archetipi del potere femminileLa sesta sala è dedicata alla visione di Fini della femminilità. Qui, la donna non è più musa o oggetto di desiderio, ma soggetto attivo, forte, indipendente, a tratti persino minaccioso. "L'Alcova / La camera nera" (1940) ci introduce in una stanza immersa nella penombra, uno spazio intimo e misterioso. Tre figure femminili, vestite con abiti eleganti, sono al centro della scena. Una di loro è sdraiata su un letto, mentre le altre due sembrano vegliare su di lei. L'atmosfera è sospesa, carica di erotismo e ambiguità. L'opera esplora il tema del desiderio femminile e la complessità delle relazioni tra donne, mettendo in discussione i ruoli tradizionali di genere. Concentriamoci ora su "Del lago / Il confine del mondo II" (1938). Quest'opera presenta una giovane donna vestita con un'armatura. L'immagine, potente e suggestiva, rimanda alla forza e all'indipendenza del femminile. La corazza, tradizionalmente simbolo di virilità e potere maschile, diventa qui un attributo della donna, a sottolineare la sua capacità di proteggersi e di affermarsi in un mondo dominato dagli uomini. Fini, attraverso la sua arte, ci invita a riconsiderare il ruolo della donna nella società, a liberarci dagli stereotipi che la vogliono fragile e sottomessa. Spostate infine lo sguardo su "Sfinge" (1950 circa). La sfinge, creatura mitologica ibrida, metà donna e metà leonessa, torna a essere protagonista. Qui, Fini la rappresenta di profilo, con un'espressione enigmatica e un portamento regale. Il suo corpo è forte, sinuoso, simbolo di potenza e fierezza. Ma la sfinge, per Fini, non è solo forza. È anche mistero, conoscenza, saggezza. È una guardiana, non un mostro divoratore.
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Sala 7: Rituali, Cerimonie e MetamorfosiQuesta sezione ci introduce al mondo dell'occulto, della magia, delle trasformazioni del corpo e dello spirito, temi che affascinavano profondamente Leonor Fini. "La guardiana delle fenici" (1954) raffigura una figura femminile, la "Guardiana", che tiene tra le mani un uovo, simbolo di nascita, rigenerazione, potenzialità. Il paesaggio infuocato e arido alle sue spalle evoca un'atmosfera di mistero e trasformazione. Questa donna è la custode di un sapere antico e segreto, legato ai cicli della vita e della morte. L'opera è profondamente legata all'interesse di Fini per l'alchimia, l'antica pratica che mirava alla trasformazione della materia e al raggiungimento della perfezione spirituale. La fenice, l'uccello mitologico che risorge dalle proprie ceneri, è un simbolo alchemico di trasformazione, rinascita e immortalità. Passiamo ora a "La Cerimonia" (1960). Il dipinto ci introduce in un'atmosfera rituale, quasi stregonesca. Due figure femminili, cinte da un panno rosso, sono intente a celebrare un rito, circondate da teschi, candele e altri oggetti simbolici. Il cielo notturno e la luna crescente accentuano l'atmosfera magica e inquietante. Fini ci invita a esplorare un mondo sotterraneo, fatto di forze occulte che agiscono al di là della realtà visibile. Le maschere indossate dalle due figure sono un elemento chiave: la maschera, simbolo di trasformazione e di occultamento, permette di celare la propria identità e di assumerne un'altra, aprendo le porte a dimensioni altre dell'essere. Queste opere riflettono la fascinazione di Fini per l'esoterismo, la stregoneria, i rituali, visti come strumenti per esplorare i lati più oscuri e misteriosi dell'animo umano, e per entrare in contatto con forze superiori.
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Sala 8: Scena o BoudoirL'ottava sala è dedicata al rapporto tra Leonor Fini, il teatro e la moda, due ambiti in cui l'artista ha espresso la sua creatività in modo originale e sorprendente. Osservate l'"Armadio antropomorfo" (1939). Non un semplice armadio, ma un oggetto di design che sfida le convenzioni. Le ante, sagomate come un corpo di donna, e l'interno foderato di raso rosa, creano un mix di sensualità e ironia, tipico dello stile di Fini. Questo armadio, commissionato dal gallerista Leo Castelli, era destinato a contenere una collezione di guanti disegnati da Fini, a testimonianza di come per l'artista l'arte dovesse permeare ogni aspetto della vita, compresi gli oggetti di uso quotidiano. Il flacone per il profumo "Shocking" di Elsa Schiaparelli (1937) è un altro esempio della creatività di Fini applicata al design. La forma del flacone, ispirata al busto dell'attrice Mae West, è un'allusione alla sensualità, all'erotismo, alla trasgressione. La collaborazione tra Fini e Schiaparelli, due donne anticonformiste e visionarie, ha dato vita a creazioni uniche, capaci di fondere arte, moda e design. Infine, i bozzetti per i costumi del Tannhäuser di Wagner (1963), realizzati per la messa in scena all'Opéra di Parigi, ci mostrano un altro lato del talento di Fini: la sua capacità di creare costumi teatrali ricchi di dettagli, colori e suggestioni oniriche. Questi bozzetti testimoniano la sua collaborazione con il mondo del teatro, un ambito che le ha permesso di esprimere la sua creatività in modo spettacolare e coinvolgente.
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Sala 9: PersonaL'ultima sala è dedicata alla costruzione del personaggio Leonor Fini, al suo rapporto con la fotografia e l'autoritratto. "Autoritratto con cappello rosso" (1968) è un'opera emblematica di questa sezione. Fini si ritrae in una posa enigmatica e teatrale, con un grande cappello rosso che incornicia il volto e crea un forte contrasto con lo sfondo scuro. Lo sguardo è intenso, penetrante, quasi a voler sfidare lo spettatore. Questo autoritratto è un esempio perfetto di come Fini utilizzasse la pittura, ma anche la fotografia, per costruire la propria immagine pubblica, per creare un personaggio misterioso e affascinante, in bilico tra realtà e finzione. Fini amava indossare cappelli e accessori eccentrici, che diventavano parte integrante del suo personaggio, un modo per esprimere la sua unicità e la sua originalità. Le fotografie esposte in questa sala documentano la vita di Fini, le sue frequentazioni, il suo amore per i travestimenti, la sua capacità di trasformare la sua stessa esistenza in un'opera d'arte. Vediamo Fini in compagnia di amici e artisti, ma anche in momenti più intimi, circondata dai suoi amati gatti. Queste immagini ci restituiscono il ritratto di una donna complessa, affascinante, libera e anticonformista, che ha saputo fare della sua vita un'opera d'arte.
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ConclusioneLa mostra "Io sono Leonor Fini" si conclude qui. Spero che questo percorso attraverso l'opera e la vita di questa straordinaria artista vi abbia offerto nuovi spunti di riflessione e vi abbia permesso di apprezzare la complessità e la ricchezza del suo universo creativo. Leonor Fini è stata una figura unica nel panorama artistico del Novecento, una donna che ha sfidato le convenzioni, che ha rivendicato la propria libertà e indipendenza, che ha saputo esprimere la sua visione del mondo attraverso un linguaggio artistico originale e potente. "Io sono Leonor Fini", amava ripetere. Una dichiarazione di identità che è anche un invito a ciascuno di noi a trovare la propria voce, a esprimere la propria unicità, a vivere la propria vita come un'opera d'arte. Grazie per la vostra attenzione. All’uscita troverete il bookshop della mostra e vi ricordiamo che potrete trovare tutti i dettagli e gli approfondimenti sulla mostra sul sito del museo.