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Viaggiatori a riposo
Leonor Fini, 1978, Olio su tela, Collezione privata. © Leonor Fini Estate, Paris.
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Divinità ctonia che veglia sul sonno di un giovane
(Autoritratto con Sforzino Sforza), Leonor Fini, 1946, Olio su tela, Collezione Privata © Leonor Fini Estate, Paris.
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Viaggiatori a riposo
Leonor Fini, 1978, Olio su tela, Collezione privata. © Leonor Fini Estate, Paris.
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Sfinge nera che veglia sul sonno di un giovane
(Autoritratto con Sforzino Sforza), Leonor Fini, 1946, Olio su tela, Collezione Privata © Leonor Fini Estate, Paris.
SCENE PRIMORDIALI
Nel corso della sua carriera, Leonor Fini mantiene un atteggiamento ambiguo nei confronti dell’interpretazione biografica della sua pittura: se in alcune dichiarazioni respingeva l’idea sostenuta da critici e storici dell’arte, in altre affermava di non essere stata capace di resistere alla tentazione dell’autorappresentazione e della confessione. Con questa premessa apre il percorso espositivo, che raccoglie una selezione di opere emblematiche delle esperienze giovanili vissute dalla Fini, che hanno lasciato un segno nel suo immaginario e che come scene compaiono ripetutamente nella sua produzione fino ad assumere il valore di pilastri concettuali. Ne sono testimonianza opere come Le Bout du monde (Fée à Beltem) (1953) e Voyageurs en repos (1978).
Scena prima: La sfinge – l’altro io
La sfinge è la creatura con cui Leonor Fini identifica sé stessa, come essere ibrido, mutante, potente e travolgente. L’artista incontra la figura della sfinge nella scultura in porfido rosa – un originale portato dall’Egitto – custodita nel Castello di Miramare a Trieste, città che le concede incontri ripetuti con altre figure allegoriche, come le cariatidi o i mascheroni noti come panduri.
Creatura ibrida, custode e nemica, la sfinge diventa la figura che con la sua ambiguità e complessità seduce Leonor Fini nella definizione del suo carattere di artista libera da convenzioni e stili.
Scena seconda: L’uomo inerme – morte o sonno
Appena adolescente, Leonor Fini visita l’obitorio di Trieste dove ha la visione sconvolgente di un corpo morto, descritto in seguito come di una bellezza straordinaria in riferimento ai ricchi tessuti, i collari e i fiori con cui la sua famiglia gitana lo copriva e scopriva ritualmente. Nell’opera pittorica dell’artista torna ripetutamente l’immagine di uomini addormentati e inermi, apparentemente morti - ispirati dalla tradizione pittorica del Cristo morto - comunque succubi della potenza femminile.
Scena terza: Travestimento – mascherarsi per sopravvivere
Nata a Buenos Aires da una famiglia italiana, Leonor Fini si trasferisce a Trieste a soli due anni con la madre, una donna indipendente che la inserisce nei circoli intellettuali della città, e cresce lontana dal padre. È lui a organizzare il rapimento della piccola Leonor Fini, che scappata ai sicari trova un rifugio sicuro nel travestimento: vestita da bambino si aggira per la città, segnando così il suo immaginario.
Scena quarta: Cecità – un’epifania
L’ultima delle Scene primordiali racconta di quando a 16 anni, nel 1923, Leonor Fini guarisce da un’infezione agli occhi che l’aveva costretta alla cecità per due mesi e mezzo.
Al risveglio da quel «sogno», Fini sperimenta un’autentica epifania che la convinse a intraprendere la carriera artistica. La metafora della cecità come chiamata a una visione superiore divenne una delle massime del surrealismo, influenzando profondamente il suo sviluppo.
Questa esperienza diede origine alla sua dedizione ossessiva alla pulsione visiva e all’eccezionale sensibilità tattile che emerge nella sua opera, evidente nelle carnagioni, nei tessuti e nelle texture: tratti di chi ha affinato gli altri sensi durante una temporanea privazione della vista.